Su SPI NEWS,  il Notiziario mensile dello Spi Cgil Nazionale, nella rubrica “In primo piano” è stato pubblicato un articolo richiesto al Professor Michele Raitano,  economista e docente all’Università La Sapienza di Roma, per  illustrare quali sono le coordinate della “flat tax” sulla quale è in corso un vivace dibattito politico in quanto facente parte delle proposte di politica fiscale del nuovo esecutivo nato dal “contratto” di governo tra Movimento 5 Stelle e Lega. L’analisi è rivolta in particolare alle ricadute che avrebbe sui redditi da pensione.

Di flat tax si è tornati a parlare in Italia da circa 1 anno, da quando l’Istituto Bruno Leoni, con un grande battage su alcuni quotidiani, ha suggerito una riforma del sistema di tax & benefit italiano fondato sul principio dell’aliquota unica. Il tema è ancor di più salito al centro del dibattito da quando la Lega vi ha incentrato la riflessione di politica fiscale prima della sua campagna elettorale, poi del contratto di governo siglato con il Movimento 5 Stelle.

Il passaggio da un sistema fiscale basato su aliquote marginali crescenti in base agli scaglioni di reddito accoppiato a un sistema (a volte opaco) di detrazioni e deduzioni fiscali come quello italiano a uno schema ad aliquota unica – associato a una deduzione in somma fissa per garantire una molto blanda progressività – è generalmente criticato sulla base di due principali motivazioni: il costo per il bilancio pubblico che deriverebbe dall’abbandono della struttura di aliquote per scaglioni, a meno di fissare l’aliquota unica a un livello tale da garantire la parità di gettito; la forte caduta della progressività (ovvero del carico fiscale relativamente maggiore sui redditi più alti, in ragione della loro maggiore capacità contributiva) che sarebbe solo in minima parte compensata dall’esistenza di deduzioni/trasferimenti in somma fissa di cui si avvantaggerebbero in misura relativamente maggiore i meno abbienti.

In queste brevi note non intendiamo enfatizzare nuovamente in astratto le gravi lacune, dal punto di vista etico e delle conseguenze che genererebbe, di un disegno di riforma ispirato alla flat tax, ma, seguendo un approccio empirico, ci chiediamo cosa accadrebbe alla distribuzione dei redditi da pensione in Italia, e al gettito connesso a tali redditi, se le promesse contenute nel contratto di governo dovessero trasformarsi in (amara) realtà.

Per fare questo dobbiamo dare un contenuto a tali promesse più precise di quanto presente nel contratto nel quale, con una buona dose di vaghezza, si parla di “due aliquote fisse al 15% e al 20% per persone fisiche, partite IVA, imprese e famiglie; per le famiglie è prevista una deduzione fissa di 3.000 euro sulla base del reddito familiare”. In queste note, anche alla luce di alcune dichiarazioni di esponenti della maggioranza, si immagina che le due aliquote verrebbero applicate a scaglioni sulla quota, rispettivamente, inferiore e superiore agli 80.000 euro di reddito individuale annuo. L’ancora maggior vaghezza del contenuto delle deduzioni – come si calcola il reddito familiare? Con quali scale di equivalenza? Cosa ne sarebbe del complesso di detrazioni e deduzioni attualmente vigenti – ci porta a ipotizzare due casi (lasciando perdere per semplicità la dimensione familiare): i) la scomparsa di tutte le detrazioni e deduzioni con una deduzione di 3.000 euro fino a redditi annui di 35.000 euro, col rischio concreto che chi gode attualmente di deduzioni e detrazioni di maggiore importo finirebbe per ritrovarsi con un reddito netto inferiore; ii) la fissazione della deduzione fissa di 3.000 euro fino a 35.000 euro di reddito individuale, con una “clausola di salvaguardia” che garantisce che nessuno si ritroverebbe, in seguito alla riforma, con un reddito netto inferiore a quello di cui godeva in precedenza.

Gli effetti distributivi e sul bilancio pubblico di tale (malaugurata) riforma sono stati analizzati in riferimento ai redditi lordi da pensione – sia solo pensioni, sia il totale delle prestazioni per invalidità, vecchiaia e superstiti (IVS) – registrati nell’indagine EU-SILC condotta per l’Italia dall’ISTAT nel 2015, nella quale si riporta, per un campione rappresentativo di residenti italiani, l’importo lordo e netto di ogni componente di reddito. Ai valori registrati in EU-SILC abbiamo, dunque, aggiunto gli importi di pensione netta che si otterrebbero dalla flat tax grillo-leghista con e senza la “clausola di salvaguardia”.

La tabella 1 compara gli effetti distributivi della legislazione vigente e dell’ipotesi di flat tax mostrando la variazione dell’indice di disuguaglianza di Gini (compreso fra 0 e 1 nel caso di nessuna e massima disuguaglianza, rispettivamente) e dell’indice di progressività di Kakwani, che indica di quanto le imposte spostino il carico fiscale verso i meno abbienti (quando l’indice si muove al di sotto dello zero) o i più abbienti (quanto più l’indice cresce rispetto allo zero).

Tab. 1: Effetti distributivi dell’introduzione della flat tax ipotizzata nel contratto di governo

 

Pensioni

 

IVS

Indice di disuguaglianza di Gini
Lorde

0.384

0.373

Nette con legislazione vigente

0.342

0.331

Nette con flat tax

0.372

0.361

Nette con flat tax e clausola di salvaguardia

0.366

0.354

Indice di progressività di Kakwani
Redistribuzione vigente

0.143

0.194

Redistribuzione con flat tax

0.069

0.082

Redistribuzione con flat tax e clausola di salvaguardia

0.115

0.151

Fonte: elaborazioni su dati EU-SILC 2015

Come evidente dalla simulazione, la flat tax contribuirebbe a ridurre notevolmente la già limitata redistribuzione realizzata dal sistema di imposizione dei redditi da pensione e in Italia. Ad esempio, nello scenario senza clausola di salvaguardia, in seguito alla flat tax, l’indice di Gini dei redditi da pensione nel passaggio da redditi lordi a netti si ridurrebbe di soli 12 punti percentuali, anziché di 42, come avviene attualmente. Analogamente, l’indice di progressività si ridurrebbe di più della metà (da 0.143 a 0.069) se le promesse del governo dovessero realizzarsi. La caduta della progressività si attenuerebbe solo parzialmente se la flat tax si accompagnasse a una clausola di salvaguardia.

Misurando il vantaggio/perdita netta per ogni contribuente percettore di pensione o prestazione IVS si può poi calcolare il costo per il bilancio pubblico di questa operazione. L’applicazione della flat tax sui soli redditi da pensione avrebbe un costo di circa 15,6 miliardi di euro (17,8 se si applicasse la clausola di salvaguardia) e il costo diviene di a circa 16,6 miliardi (20,3 con clausola di salvaguardia) se si prende in considerazione l’intero ammontare delle prestazioni IVS.

Utilizzare così tante risorse pubbliche per realizzare una misura di stampo così regressivo – in media i pensionati del quintile più ricco otterrebbero un beneficio di circa 5.100 euro annui, a fronte di un beneficio di 174 euro per quelli del quintile più povero – dovrebbe portare qualsiasi persona ragionevole a contrastare con forza quest’ipotesi di riforma. Ma, purtroppo, le vie del dibattito di politica economica, e della razionalità di policy makers ed elettori, sono nel nostro paese da qualche tempo infinite.

Michele Raitano (Università La sapienza di Roma)