Ormai un terzo degli italiani si indebita per curarsi. E prova rabbia per le liste d’attesa troppo lunghe, per i casi di malasanità e perché si deve pagare di tasca propria troppe prestazioni. Così, 40 miliardi di euro finiscono nella casse dei privati.

Mentre il nuovo Governo teorizza che sia giusto che i più ricchi paghino meno tasse, capovolgendo così il dettato costituzionale, nel Paese reale i più poveri sono sempre più in difficoltà, anche in un campo così delicato come quello della tutela della propria salute e di quella dei propri familiari. A spiegarlo è il rapporto Censis-Rbm sulla spesa sanitaria privata presentato nei giorni scorsi. Alla fine di quest’anno la spesa privata complessiva sostenuta dagli italiani per prestazioni sanitarie e medicinali sarà di quaranta miliardi di euro rispetto ai 37 miliardi e 300 milioni dello scorso anno.

Una crescita esponenziale, molto più sostenuta rispetto a quella dei consumi che al contrario arrancano, in particolare per le famiglie a basso reddito. Nel periodo 2014-2016 i consumi delle famiglie operaie sono rimasti sostanzialmente fermi (+0,1%), ma le spese sanitarie private sono aumentate del 6,4% (in media 86 euro in più nell’ultimo anno per famiglia), in pratica l’intera tredicesima se ne va per pagare cure sanitarie familiari: quasi 1.100 euro all’anno. Nell’ultimo anno, sottolinea ancora il rapporto, per pagare le spese per la salute 7 milioni di italiani si sono indebitati e 2,8 milioni hanno dovuto usare il ricavato della vendita di una casa o svincolare risparmi. Solo il 41% degli italiani copre le spese sanitarie esclusivamente con il proprio reddito: il 23,3% deve integrarlo attingendo ai risparmi, mentre il 35,6% deve usare i risparmi o fare debiti (in questo caso la percentuale sale al 41% tra le famiglie a basso reddito). Il 47% degli italiani taglia le altre spese per pagarsi la sanità (e la quota sale al 51% tra le famiglie meno abbienti).

Chi meno guadagna, più deve trovare risorse aggiuntive al reddito per pagare la sanità di cui ha bisogno. Quarant’anni dopo l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale che aveva l’obiettivo di dare sostanza all’articolo 32 della Costituzione che sancisce che “ La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.”, scelta compiuta quando la parola “riforma” aveva ancora un senso ed un significato positivo, siamo chiamati a fare i conti con le scelte delle politiche sanitarie degli ultimi anni che quello spirito hanno tradito, invertendo in maniera preoccupante la loro direzione di marcia: lo sforzo di ridurre e combattere le disuguaglianze e le disparità di accesso alle cure ed ai servizi sanitari si è scontrato con scelte politiche e modifiche istituzionali che hanno nuovamente prodotto un allargamento delle disparità.

Così il 37,8% degli italiani ormai prova rabbia verso il Servizio sanitario a causa delle liste d’attese troppo lunghe o i casi di malasanità ed il 26,8% è critico perché, oltre alle tasse, si deve pagare di tasca propria troppe prestazioni o perché le strutture non sempre funzionano come dovrebbero. E ancora una volta i più arrabbiati verso il Servizio sanitario sono le persone con redditi bassi (43,3%) e i residenti al Sud (45,5%) che vivono sulla loro pelle le conseguenze di quel federalismo sanitario che ha negato nei fatti l’uguaglianza del diritto alla salute sull’intero territorio nazionale. Forse invece che di Flat Tax il Paese avrebbe bisogno di maggiori risorse da investire in Sanità per tenere fede a quei tre pilastri su cui fu fondato il servizio Sanitario Nazionale: l’universalità, l’eguaglianza e l’equità per garantire il diritto alla salute a tutti i cittadini senza distinzioni sociali, economiche e territoriali.

di Nuccio Iovene